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L’importanza dell’uso del biossido di carbonio (CO2) negli acquari d’acqua dolce è ormai accettata universalmente: l’effetto benefico che esso ha direttamente sulle piante, indirettamente sui pesci e sul sistema acquario in generale è in questo articolo dato per noto.
L’uso sistematico del CO2 si scontra tuttavia col fatto fondamentale che i costi, ricorrendo al materiale specifico acquaristico, sono alti, spesso troppo alti in assoluto e comunque esagerati rispetto all’intrinseco valore delle parti necessarie. In questa guida cercheremo di illustrare in modo più o meno completo le vie percorribili per risparmiare ed al tempo stesso dotarsi di un efficace impianto di CO2.
Ultimo aggiornamento 2024-11-14 / Link di affiliazione / Immagini da Amazon Product Advertising API
Il dosaggio del CO2
Non si può stabilire a priori la corretta quantità di CO2 da diffondere nel proprio acquario, perché essa dipende da molteplici fattori di carattere biologico e chimico non esattamente quantificabili. Di conseguenza è da rifiutare ogni ricetta del genere “per x litri d’acqua si erogano y bolle al minuto”, che può essere presa solo come indicazione di massima per il dosaggio iniziale, da modulare secondo le necessità. Come norma generale si può dire che, restando entro limiti ragionevoli, il CO2 può anche essere in eccesso rispetto alle esigenze delle piante, in quanto ciò non comporta inconvenienti di alcun genere, se non l’abbassamento del pH. Al contrario la carenza di CO2 è sempre di ostacolo alla loro crescita e può portare a gravi scompensi chimici perché molte piante, in carenza di CO2 libero, assorbono il carbonio di cui necessitano dai bicarbonati, provocando un calo della durezza carbonatica, con le conseguenze che ne derivano. La quantità di CO2 da diffondere dipende dunque da un complesso equilibrio in cui sono compresi in prima battuta il suo consumo e produzione in vasca (da parte di piante, pesci, batteri ed altri microrganismi e processi di ossidazione chimica), e l’equilibrio gassoso con l’aria atmosferica che si stabilisce alla superficie dell’acqua. Questi fattori primari dipendono a loro volta da moltissimi fattori secondari come l’illuminazione, la disponibilità di nutrienti per le piante e per i pesci, la temperatura, la pressione atmosferica, la presenza di turbolenza superficiale.
Per quanto riguarda i pesci e gli eventuali invertebrati solo un’eccezionale concentrazione di CO2 può essere dannosa, ostacolando gli scambi fra O2 e CO2 al livello branchiale. Concentrazioni anche alte di CO2 sono invece perfettamente tollerate, anche in considerazione del fatto che, in un acquario ben funzionante, queste si accompagnano a concentrazioni a loro volta alte di ossigeno: infatti le concentrazioni statiche di O2 e CO2 in acqua sono indipendenti, ma una buona fotosintesi ad opera delle piante (facilitata dalla CO2) provoca il continuo “pompaggio” di ossigeno in acqua, con conseguente raggiungimento e superamento dei livelli di saturazione di questo gas nell’acquario, segnalato dal formarsi di minute bollicine sulle foglie delle piante acquatiche, in ispecie in corrispondenza di lesioni.
Passando alla pratica si può dire che in un acquario ben illuminato e fertilizzato, in cui l’elemento limitante nella crescita delle (numerose) piante presenti è il CO2, si può aumentare gradualmente il dosaggio di questo gas fino ad ottenere la formazione di ossigeno dopo circa metà del periodo d’illuminazione.
Questa indicazione è un po’ imprecisa e dà per scontato che tutti gli altri fattori siano ottimali, dunque è meglio ricorrere alla relazione quantitativa che lega durezza carbonatica, pH e concentrazione di CO2. Tale relazione è valida nel caso in cui il sistema tampone dei bicarbonati sia prevalente nell’acqua d’acquario, cosa che in pratica avviene sempre, purché la durezza carbonatica sia maggiore di 1° dKH. Per approfondimenti sui sistemi tampone si può ricorrere a un testo di chimica generale (ad esempio P. Silvestroni, Fondamenti di chimica, Editoriale Veschi Milano) o, più semplicemente, agli articoli di Walter Peris sul sito del G.A.E.M. (in particolare http://www.gaem.it/pubblico/articoli/chimicaacqua/itamponi-khegh.shtml).
Quel che dunque si fa è misurare il KH e determinare grazie alle apposite tabelle (vedi tabella 1 di seguito) il pH da raggiungersi per ottenere la concentrazione voluta di CO2; tale concentrazione varia a sua volta secondo le piante ed il tipo di acquario, tuttavia in questo caso si può essere più precisi e quantificare in almeno 15 ppm la concentrazione necessaria ad una buona crescita delle piante. Valori superiori, fino a circa 40 ppm, sono ancora più consigliabili, specie per piante delicate o con colorazioni rossastre, mentre non conviene salire ulteriormente senza fare attenzione alle condizioni dei pesci, soprattutto alla fine del periodo di buio.
Tali concentrazioni sono raggiungibili con un’ampia gamma di valori di pH e KH, tuttavia per considerazioni generali sui valori chimici più favorevoli alla crescita di quasi tutte le piante (ed anche alla stragrande maggioranza dei pesci d’acquario) è consigliabile situarsi nel campo che nella tabella è evidenziato in verde, cioè mantenere KH fra 2° e 4° d e, conseguentemente, pH fra 6.2 e 6.8
pH | ||||||||||
3.0 | 1.9 | 1.2 | 0.8 | 0.5 | 0.3 | 0.2 | 0.1 | 0.1 | ||
9.5 | 6.0 | 3.8 | 2.4 | 1.5 | 0.9 | 0.6 | 0.4 | |||
11.9 | 7.5 | 4.8 | 3.0 | 1.9 | 1.2 | 0.8 | ||||
45.0 | 11.3 | 7.1 | 4.5 | 2.8 | 1.8 | 1.1 | ||||
60.0 | 9.5 | 6.0 | 3.8 | 2.4 | 1.5 | |||||
75.0 | 47.3 | 11.9 | 7.5 | 4.7 | 3.0 | 1.9 | ||||
90.0 | 56.8 | 14.3 | 9.0 | 5.7 | 3.6 | 2.3 | ||||
105.0 | 66.3 | 41.8 | 10.5 | 6.6 | 4.2 | 2.6 | ||||
120.0 | 75.7 | 47.8 | 12.0 | 7.6 | 4.8 | 3.0 | ||||
150.0 | 94.6 | 59.7 | 9.5 | 6.0 | 3.8 | |||||
180.0 | 113.6 | 71.7 | 45.2 | 11.4 | 7.2 | 4.5 | ||||
210.0 | 132.5 | 83.6 | 52.7 | 13.3 | 8.4 | 5.3 | ||||
240.0 | 151.4 | 95.5 | 60.3 | 9.6 | 6.0 | |||||
300.0 | 189.3 | 119.4 | 75.4 | 47.5 | 11.9 | 7.5 | ||||
360.0 | 227.1 | 143.3 | 90.4 | 57.1 | 14.3 | 9.0 | ||||
450.0 | 283.9 | 179.1 | 113.0 | 71.3 | 45.0 | 11.3 |
Tabella 1: Concentrazione in ppm del CO2 in funzione di pH e KH, in condizioni di predominio del tampone dei bicarbonati. In verde i valori ottimali, in giallo quelli accettabili (adattata da W. Peris, cit.).
Occorre precisare che tali valori di concentrazione sono superiori a quelli generalmente consigliati, ma è esperienza mia personale e di molti altri acquariofili che l’effetto di tale abbondante concentrazione è estremamente positivo.
Metodi di regolazione
Presupposto indispensabile affinché si possa avere una regolazione stabile è che la durezza carbonatica sia costante: dico questo perché la presenza di tracce anche minime di calcare in vasca provoca, in presenza di CO2 abbondante, un graduale ed incontrollabile aumento del KH. Accade spesso che negli acquari sia presente un ghiaietto lievemente calcareo, che non ha mai dato alcun problema, ma che inizia a mandare in soluzione grosse quantità di bicarbonati appena si comincia ad introdurre il CO2: ciò è inevitabile, e quando si programma di cominciare a fertilizzare con CO2 bisogna sincerarsi che in vasca non ci siano tracce di roccia calcarea.
La regolazione del livello di CO2 può avvenire sostanzialmente in tre modi: modificando l’efficienza di diffusione, modulando la quantità di CO2 immessa o rendendo la superficie dell’acqua più o meno stagnante.
I primi due sono strettamente legati al tipo di diffusore utilizzato e al genere di impianto: ne parleremo rispettivamente al punto 5.1 e al punto 4.2.4.
Per quanto riguarda il movimento superficiale c’è da dire che in genere bisogna evitare un forte movimento, che disperderebbe CO2, per non sprecarlo inutilmente. Si può ricorrere ad un aumento del contatto con l’aria (con un aeratore, una pompa di movimento superficiale, o semplicemente indirizzando verso o sopra la superficie il getto della pompa del filtro) solo se non si è in grado di regolare altrimenti la concentrazione di CO2 e questa è evidentemente eccessiva: per esempio con un impianto a zucchero e lievito può essere utile accendere l’aeratore per qualche ora durante la notte nei primi giorni di reazione. Preciso comunque che questi provvedimenti si rendono necessari veramente di rado, e che in genere una buona regolazione del CO2 immesso in vasca è più che sufficiente.
Ricordarsi che se si vedono i pesci boccheggianti in superficie la responsabilità è quasi sempre di una carenza di ossigeno e non di un eccesso di CO2; dopo aver stabilito la concentrazione di CO2 tramite la misurazione di pH e KH bisogna in tal caso chiedersi perché scarseggi l’ossigeno nonostante la giusta concentrazione di CO2, analizzando nel complesso la situazione dell’acquario (illuminazione, fertilizzazione, quantità e qualità delle piante, presenza di sostanza organica marcescente, eccetera). Comunque l’esperienza concorde mia e di numerosissimi acquariofili indica che in un acquario in buone condizioni generali, correttamente fertilizzato con CO2, l’ossigeno non scarseggia mai.
Se per un motivo qualsiasi si determinasse in acquario una concentrazione eccessiva e pericolosa di CO2 la si può velocemente ridurre aumentando la turbolenza superficiale dell’acqua (getto della pompa sopra la superficie, aeratore).
Metodi di controllo continuo
Soprattutto nei primi tempi si può temere di assistere a sbalzi repentini della concentrazione del CO2. In realtà tali sbalzi sono quanto mai improbabili ed in definitiva dopo un paio di giorni di frequenti misurazioni del pH e di aggiustamenti del CO2 si dovrebbe riuscire a stabilizzare il tutto. Tuttavia è possibile (a un prezzo non proprio popolare) dotarsi di strumenti che permettono di controllare continuamente il pH e dunque, indirettamente, il CO2 disciolto.
Il misuratore continuo
Il metodo più immediato è ricorrere ai misuratori continui di CO2 : li producono diverse marche acquaristiche e li vendono ad un prezzo abbordabile ma eccessivo per il valore reale degli oggetti. Si tratta in pratica di piccole campane trasparenti in cui viene mantenuto un campione di acqua dell’acquario cui è stato aggiunto un reagente del tipo di quelli usati per misurare il pH. Tale campana è immersa nell’acquario e il campione interno è messo in contatto, tramite un camino pieno d’aria, con l’acqua dell’acquario. Si stabiliscono scambi gassosi fra l’acquario e la bolla d’aria imprigionata nel camino e fra questa e il campione colorato, in modo che in tale campione si mantiene una concentrazione di CO2 uguale a quella che c’è in acquario. Secondo la colorazione del campione si può dedurre il pH e di conseguenza la concentrazione di CO2 in acquario.
Notare che per il funzionamento di tale strumentino è indispensabile che il campione abbia lo stesso KH dell’acquario, ciò significa in pratica che ad ogni cambio d’acqua bisogna rinnovare il campione.
Per la colorazione “giusta” si tenga presente che ciascuna Casa consiglia una concentrazione di CO2 diversa: in pratica è meglio “scegliersi” la concentrazione voluta e vedere di che colore è il reagente a quella concentrazione: quello è il colore giusto!
È possibile autocostruirsi l’apparecchietto con un po’ di manualità.
Il pHmetro elettronico
Si tratta di uno strumento in grado di determinare il pH con estrema precisione: lasciando sempre immersa la sonda è possibile seguire le variazioni di pH e dunque di CO2. Dato che tale costoso apparecchio è spesso associato ad un metodo di regolazione automatica del CO2.
L’impianto a zucchero e lievito
Caratteristiche generali e principio di funzionamento
È probabilmente il modo più facile e sicuramente il meno costoso per avvicinarsi al CO2 ed apprezzarne i vantaggi. Sicuramente è un po’ scomodo ed inadatto a vasche grandi, ma se si possiede una vasca da meno di 100 litri e non si è mai provato il CO2 è il caso di farci un pensierino.
Il metodo sfrutta il metabolismo del lievito Saccharomyces cerevisiae, il comune lievito di birra usato anche per lievitare il pane e le pizze e nella vinificazione. Per nutrirsi tale lievito è in grado di elaborare in condizioni anaerobiche il glucoso (uno zucchero) con quella che prende il nome di “fermentazione alcoolica”. Senza entrare nel meccanismo di tale insieme di reazioni si può dire che il lievito è in grado di assorbire zucchero da cucina , espellendo come rifiuti etanolo (il normale alcool), acqua e CO2.
Di conseguenza è possibile rinchiudere in una bottiglia una soluzione di acqua e zucchero con del lievito, e prelevare il CO2 che viene prodotto.
Realizzazione pratica
Occorre una bottiglia da almeno un litro (volumi superiori aumentano la durata della reazione, ma in modo meno che proporzionale) con un tappo a tenuta e di materiale lavorabile. È bene usare una bottiglia resistente alla pressione e non pericolosa in caso di esplosione: per esempio una bottiglia di plastica per bevande gassate.
Nel tappo si pratica un foro di dimensione tale che un normale tubetto dell’aria possa entrare a forza, si inserisce per circa 1 cm il suddetto tubetto, lungo quanto basta a poter raggiungere l’erogatore in acquario, e lo si incolla con abbondante silicone o altro mastice. È anche possibile ricorrere a qualche raccordo metallico o plastico che si possa più facilmente fissare al tappo della bottiglia: per esempio si può usare uno spezzone di tubetto rigido dell’aria, in modo da rendere scollegabile il tubetto flessibile; in tal caso è meglio usare una colla epossidica per rendere più rigida la giunzione. Per migliorare la tenuta del tappo si può usare una guarnizione idraulica o, meglio, un O-ring. In ogni caso consiglio di provare la tenuta al primo utilizzo bagnando le giunzioni con un po’ d’acqua saponata.
Per il riempimento si procede così: si prepara una soluzione nel rapporto di 1 litro d’acqua, 100 grammi di zucchero e 1 grammo di lievito di birra. Usando acqua tiepida (non calda!) è più facile sciogliere il lievito e la fermentazione comincia prima (è consigliabile stemperare il lievito in una piccola quantità d’acqua, da aggiungere poi al resto). Come lievito si può usare sia quello fresco, in panetti, sia quello secco, in granelli (venduto in bustine in genere come lievito per pizze). In ogni caso il lievito è di colore beige ed ha un caratteristico odore. Non bisogna usare il lievito chimico (polvere bianca finissima) perché completamente inutile.
Con tale soluzione si riempie per ¾ la bottiglia e si chiude ermeticamente col tappo. Il tubicino va in vasca, collegato ad un erogatore. Per evitare di creare pressioni pericolose e per facilitare la fermentazione è bene utilizzare un erogatore a diffusione, non un atomizzatore, a meno che questo non funzioni con poca pressione.
La bottiglia va sistemata a temperatura ambiente (il calore accelera troppo la fermentazione, il freddo la blocca) in posizione possibilmente sopraelevata rispetto all’acquario; se ciò non è possibile il consiglio sempre valido di usare una valvola di non ritorno (vedi punto 5.4) diviene in pratica un obbligo.
La fermentazione comincia dopo qualche ora (fino a una giornata) e prosegue in genere per un paio di settimane. È bene preparare una seconda bottiglia un po’ in anticipo, in modo da poterla sostituire a tempo.
I residui della fermentazione si buttano; in caso di mancanza di lievito è possibile “riciclare” il deposito della bottiglia, soprattutto se si è usato lievito fresco. Questo sistema funziona però male, perché il lievito va comunque incontro a fenomeni degenerativi e non sopravvive a lungo nell’ambiente ostile in cui si trova.
Regolazione
Il sistema è assai poco regolabile: la fermentazione avviene di per sé irregolarmente, soprattutto all’inizio e alla fine, e diminuisce d’intensità col passare del tempo. Inoltre non è prudente applicare un rubinetto di chiusura per evitare sovrappressioni: la cosa migliore è non regolare affatto il sistema, che comunque difficilmente produce troppo CO2. Nel caso ci si trovasse costretti ad una qualche regolazione è bene intervenire sull’erogatore, aumentandone o diminuendone l’efficienza, oppure prevedere uno sfogo regolabile: in altri termini sul tubicino in uscita dal recipiente si applica una “T”: delle due derivazioni una va all’acquario, l’altra è regolata con un rubinettino (materiali nei negozi d’acquari): aprendo il rubinetto una parte del CO2 può sfuggire e dunque diminuisce la quantità erogata all’acquario.
Cautele
Il sistema è sostanzialmente privo di rischi gravi, tuttavia possono capitare inconvenienti spiacevoli: se si lascia la bottiglia collegata dopo l’esaurimento della fermentazione può capitare che la brodaglia contenuta si diffonda in acquario: non è velenosa ma è necessario un immediato ed abbondante cambio d’acqua perché rende completamente opaco l’acquario e lo riempie di sostanze organiche in decomposizione. Per evitare tale incidente è utile la valvola di non ritorno o la sistemazione sopraelevata. Stesso rischio si corre se si riempie troppo la bottiglia.
Come si è accennato è bene evitare il formarsi di pressione interna per scongiurare l’eventuale scoppio del recipiente. In tal caso oltre all’evidente spargimento di schifezze c’è il rischio che l’acquario di svuoti attraverso il tubicino del CO2.
Un altro inconveniente abbastanza frequente in caso d’intasamento è che la bottiglia, al momento dell’apertura, lasci sfuggire getti a pressione del suo contenuto.
Il residuo della fermentazione contiene principalmente acqua, alcool, zucchero, microrganismi morti e residui vari del metabolismo.
L’impianto con bombola ad alta pressione
Nelle bombole il CO2 si trova allo stato liquido, ad una pressione che dipende dalla temperatura ma è dell’ordine delle 50-100 atmosfere; inoltre il CO2, in presenza di umidità, ha una reazione acida e quindi diviene corrosivo.
Di conseguenza, dati anche i grossi risparmi che si realizzano con l’impianto faidaté suggerito, non ha senso mettere a repentaglio la salute propria e di chi ci circonda utilizzando materiale insicuro o inadatto.
In particolare è importante rispettare tassativamente la normativa e usare, per l’alta pressione, solo accessori esplicitamente progettati, collaudati e tarati per il CO2: su bombole, valvole e riduttori di pressione deve essere riportata almeno la dicitura “CO2” e la pressione di collaudo. I materiali devono essere in buone condizioni e non devono essere aperti né manomessi in alcun modo.
Oltre a ciò c’è da tener conto che l’uso di materiale non a norma espone in caso di incidente a sostanziose richieste di risarcimento, che un’eventuale assicurazione non coprirebbe, anche nel caso fortunato che non si abbiano danni a persone.
A solo titolo di esempio rammento dunque che le bombole devono essere da CO2, i riduttori di pressione non possono essere vecchi riduttori da ossigeno dismessi dagli ospedali “tanto sono ancora buoni”, gli estintori devono essere solo ed esclusivamente estintori a CO2 e non a polvere o di qualsiasi altro tipo.
Anche nel caso che si giudichino (con cognizione di causa) i materiali sostitutivi di caratteristiche superiori a quelli specifici per CO2 non è consigliabile usarli.
Tra l’altro ogni rivenditore deve rifiutarsi per legge di riempire con CO2 bombole che non riportino la stampigliatura “CO2”.
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L’impianto standard
L’impianto standard con bombola ad alta pressione è sicuramente il più comodo, ha spese di esercizio modeste, e l’impianto stesso può essere assemblato con una spesa non eccessiva. Esso si compone di una bombola ricaricabile con valvola di chiusura e valvola di sicurezza, di un riduttore di pressione eventualmente dotato di uno o due manometri e di una valvola a spillo.
Con il riduttore di pressione si porta la pressione del gas fino a 1-2 atmosfere, con la valvola a spillo si effettua la regolazione fine.
Non tutti gli erogatori di CO2 hanno bisogno della valvola a spillo.
-Bombola, valvola di chiusura e valvola di sicurezza
La bombola può essere acquistata, nuova o usata, nei magazzini che vendono ossigeno e gas tecnici; si possono trovare sulle pagine gialle in genere alla voce “Ossigeno uso medicale ed accessori terapeutici”. La bombola viene acquistata con una valvola di chiusura (montata eventualmente al momento dell’acquisto) che permette il trasporto della bombola piena e l’eventuale chiusura dell’erogazione del gas. Quando si scollega la bombola per la ricarica o per altri motivi bisogna anzitutto chiudere la valvola, poi staccare il riduttore di pressione dalla valvola di chiusura, mai staccare la valvola di chiusura dalla bombola.
Incorporata nella valvola di chiusura deve esserci una valvola di sfogo di emergenza in caso di sovrappressione interna: in genere la si riconosce perché è costituita da un piccolo corpo sporgente dalla valvola di chiusura, con uno o più fori e un bullone sporgente. Il bullone tiene premuta la molla che trattiene la valvola e non va evidentemente mai toccato.
Se ci si trova ad acquistare una bombola nuova è bene chiederne una con i nuovi colori (l’ogiva, cioè la parte superiore, deve essere grigio chiaro e non grigio scuro, e dev’essere applicata un’etichetta stampata che identifica il gas contenuto ed i rischi).
Le bombole con la vecchia colorazione dovranno essere riverniciate entro qualche anno.
In alternativa alla bombola si può acquistare, in genere con notevole risparmio, un estintore usato e revisionato. Le caratteristiche (stampigliature, valvola di chiusura, valvola di sicurezza) devono essere le stesse delle bombole normali, l’unica differenza è che gli estintori si acquistano già riempiti.
Come dimensioni ci si può orientare secondo la grandezza dell’acquario e la possibilità di riempire frequentemente la bombola: in ogni caso il risparmio che si consegue comprando una bombola piccola è modesto e i costi di riempimento sono proporzionalmente maggiori. Di conseguenza consiglio di acquistare una bombola sotto il chilogrammo solo se si hanno seri problemi di spazio, le misure più favorevoli sono quelle da 1 a 5 kg, che garantiscono un’autonomia di parecchi mesi od addirittura anni. Oltre i 5 kg le bombole sono soggette ad una normativa di sicurezza più pesante e pertanto sconsigliabili.
Per il riempimento delle bombole ci si può rivolgere ai medesimi indirizzi (magazzini di gas tecnici o attrezzature antincendio).
Esistono bombole “usa e getta” di piccola capacità, fino a 1 kg, del tipo impiegato nell’impianto Askoll. Si acquistano da fornitori di materiali per saldature (dove potrebbero anche trovarsi bombole ricaricabili standard). Esse richiedono un riduttore di pressione apposito e hanno una valvola di chiusura automatica (senza manopola). I costi di uso sono maggiori di quelli relativi ad una bombola ricaricabile.
-Il riduttore di pressione
È un apparecchio che mantiene in uscita una pressione minore di quella di entrata, regolabile con un’apposita manopola. Può comprendere una valvola di emergenza e uno o due manometri. Questi non sono indispensabili, ma sicuramente comodi: il manometro di alta pressione segna la pressione interna alla bombola, che come accennato fino a quando è presente CO2 liquido è relativamente costante e dipende principalmente dalla temperatura. Tuttavia appena il CO2 liquido si esaurisce e la bombola resta piena solo di gas la pressione comincia a calare proporzionalmente al consumo: di conseguenza il manometro di alta pressione indica con un certo anticipo quando il CO2 sta per finire e permette di recarsi in tempo a far riempire la bombola.
Il manometro di bassa pressione è invece utile per la regolazione, soprattutto nel caso sia presente la valvola a spillo, perché permette di impostare immediatamente la pressione “giusta” che come detto è di 1-2 atmosfere.
Il riduttore di pressione, con o senza manometri, si acquista dove si è acquistata la bombola.
Esistono anche riduttori di pressione non regolabili, più economici. In tal caso la pressione di uscita preimpostata deve essere ancora di 1-2 atmosfere, e la valvola a spillo diviene evidentemente indispensabile in ogni caso.
Le bombole usa e getta richiedono un riduttore di pressione specifico, con l’attacco adeguato. Non si può, che io sappia, adattare un riduttore di pressione standard ad una bombola usa e getta, a meno di farsi tornire un pezzo ad hoc. Viceversa è possibile adattare alle bombole ricaricabili un riduttore progettato per le bombole usa e getta mediante l’apposito raccordo prodotto dalla Askoll. È quello che si fa per aggiornare l’impianto Askoll (da bombola usa e getta a bombola ricaricabile).
-La valvola a spillo
La valvola a spillo, necessaria solo con erogatori a diffusione, permette la regolazione fine della pressione a valori molto bassi, quali quelli richiesti da questi erogatori: infatti il riduttore di pressione non è in grado di mantenere sull’uscita una pressione sufficientemente bassa in modo stabile.
Disponendo di un erogatore a atomizzazione commerciale, la valvola a spillo non è in genere indispensabile, ma semplifica di molto la corretta regolazione. Molti modelli faidaté di questo tipo richiedono invece la valvola a spillo.
La valvola a spillo è in pratica un piccolo rubinetto in cui l’elemento mobile è uno spillo metallico, cosa che permette regolazioni estremamente precise. Data la sua struttura una valvola a spillo non deve essere mai forzata, pena il danneggiamento dello spillo e della sua sede. Si può acquistare a cifre molto contenute nei magazzini già indicati o anche in grossi ferramenta o in negozi d’acquari. Evitare di farsi rifilare giocattoli od oggetti inutili da negozianti incompetenti o disonesti: una valvola a spillo è una cosa specifica, non è sostituibile con un rubinettino di plastica.
-Regolazione
Come si è già accennato la regolazione avviene in modo diverso secondo il tipo di erogatore.
Con i diffusori si regola la pressione su circa 1.5 atmosfere e si agisce sulla valvola a spillo fino ad ottenere la quantità di CO2 desiderata; a questo punto, se la valvola a spillo fosse poco precisa, è possibile compiere ulteriori regolazioni micrometriche agendo di nuovo sul riduttore di pressione, variando la pressione fra circa 0.5 e 3 atmosfere.
Con gli atomizzatori se si dispone di valvola a spillo si può procedere allo stesso modo, tenendo presente che secondo i modelli può essere richiesta una pressione in uscita dal regolatore maggiore di 1.5 atmosfere (si procede per tentativi); se non si dispone di valvola a spillo si agisce direttamente sul riduttore di pressione (cosa possibile, ribadisco, solo con atomizzatori che funzionino con una certa pressione interna: in pratica soprattutto quelli commerciali).
Si tenga presente che la regolazione deve essere fatta con calma, poco per volta, aspettando del tempo fra un piccolo aggiustamento e l’altro: soprattutto con gli atomizzatori commerciali bisogna dare tempo alla pressione di uniformarsi.
Come regola generale si consideri anche che le viti hanno un certo gioco, dunque cambiando verso di rotazione la prima frazione di giro non produce alcun effetto. In realtà sarebbe buona norma arrivare alla giusta regolazione compiendo le ultime rotazioni tutte nello stesso verso (ad aprire o a chiudere).
L’impianto a regolazione automatica
La regolazione automatica degli impianti di CO2 è un’aggiunta all’impianto standard che può essere utile, ma va detto chiaramente che non è indispensabile: infatti si riesce sempre a regolare l’erogazione di CO2 in modo da mantenerne più o meno costante la concentrazione. Nel caso di ricorso al fai da te la spesa non è esagerata come accade per gli impianti commerciali, ma è comunque sensibile, sufficiente a far raddoppiare il costo d’un impianto standard.
-L’elettrovalvola
Elemento fondamentale di ogni apparato di regolazione è ovviamente l’elettrovalvola, che si occupa di attuare i comandi dell’apparato di regolazione. L’elettrovalvola si installa a valle del regolatore di pressione e dell’eventuale valvola a spillo, di modo che agisce sulla bassa pressione: per questo non è un componente particolarmente critico e si può usare praticamente qualsiasi elettrovalvola per gas che si trovi in commercio, purché funzioni ad una pressione di qualche atmosfera. Si possono trovare elettrovalvole in grossi ferramenta, fornitori di apparecchiature per gas e idrauliche, oltreché in negozi d’acquari. Se si può è meglio collegare l’elettrovalvola all’impianto con giunti metallici (normali giunti idraulici con misure in pollici). È anche possibile (anche se sconsigliabile) collegare, con appositi portatubo, la valvola fra due spezzoni di tubo flessibile del CO2. In tal caso bisogna sincerarsi che il tubetto resista alla pressione massima raggiunta durante la chiusura della valvola.
Di solito si usano valvole “normalmente chiuse” ed è meglio uniformarsi a tale abitudine per motivi pratici e di sicurezza.
Si possono utilizzare valvole a tensione di rete o a bassa tensione, la scelta va fatta secondo il tipo di regolatore di cui si dispone. In ogni caso è abbastanza naturale che la valvola in funzione scaldi anche parecchio.
-Regolazione a tempo
È il tipo più elementare di regolazione: la valvola viene collegata semplicemente ad un timer; in tal caso evidentemente occorre utilizzare valvole a 220 volt. Si può ricorrere a tale tipo di regolazione se con un’erogazione costante del CO2 si assiste a sbalzi giorno/notte del pH e dunque della concentrazione di CO2: quel che può accadere, anche se di rado, è che il CO2 sia giusto di giorno ed eccessivo di notte. In tal caso è indicato lo spegnimento per qualche ora durante la notte. Si tenga presente che lo spegnimento tout court durante tutta la notte provoca in genere sbalzi di pH anche maggiori, nel senso opposto (cioè determina un innalzamento del pH nelle ore di buio). Il procedimento corretto è anche qui per gradi: si comincia a spegnere il CO2 durante l’ultimo periodo di buio ed eventualmente si aumenta il tempo di spegnimento, anticipando lo spegnimento o anche disattivando il CO2 ad intermittenza (ad esempio 45 minuti acceso e 15 spento). Fino a quando non si è trovata la giusta regolazione bisogna controllare il pH più volte ogni notte.
Un metodo alternativo, che permette di non acquistare l’elettrovalvola, è collegare al timer un aeratore, in modo che si accenda nelle ore in cui il CO2 è eccessivo. Attenzione che l’aeratore riduce con molta rapidità la concentrazione di CO2.
-Regolazione automatica controllata
L’impianto con regolazione automatica controllata da un pHmetro è senz’altro il massimo che si possa pensare, anche se i vantaggi effettivi non sono poi così sensibili. Come si è già detto la spesa è alta, e resta accettabile solo ricorrendo al faidaté. Un vantaggio non secondario che ha questo impianto è la lettura continua del pH, e la possibilità di usare il pHmetro anche per misurazioni in altri acquari, con conseguente abbandono dei test colorimetrici.
A favore di questo sistema si può dire che si riesce a stabilizzare perfettamente il pH, con variazioni durante la giornata inferiori al decimo di unità.
Anzitutto va detto che anche un impianto controllato con un pHmetro richiede un’accurata regolazione meccanica dell’erogazione di CO2: bisogna infatti regolare l’erogazione in condizioni di elettrovalvola aperta in modo da creare un compromesso fra rapidità d’azione del controllo (che imporrebbe un’erogazione elevata, molto superiore al necessario, in modo che l’apertura dell’elettrovalvola provochi un rapido ristabilimento del pH impostato) e sicurezza (che richiederebbe un’erogazione moderata, in modo che se per un qualsiasi guasto l’elettrovalvola restasse sempre aperta non si raggiungerebbero comunque concentrazioni tanto alte da danneggiare i pesci).
In pratica conviene propendere per la sicurezza: cioè si individua la regolazione dell’erogazione che, ad elettrovalvola sempre aperta, mantiene il pH su valori prossimi a quelli voluti, e poi si aumenta leggermente. In tali condizioni l’elettrovalvola, posta sotto il controllo del pHmetro, resterà quasi sempre aperta: se si vede che resta effettivamente sempre aperta e in talune occasioni il pH non raggiunge il valore impostato bisogna aumentare l’erogazione, se viceversa l’elettrovalvola resta quasi sempre chiusa e il pH tende ad essere troppo basso è meglio diminuirla.
-La sonda pH
Il cuore del sistema è la sonda pH. Si tratta di uno strumento di fabbricazione più o meno standard, che converte l’attività degli ioni idrogeno (pH) in una differenza di potenziale, direttamente proporzionale al pH stesso. Per la precisione a pH 7 la sonda produce una d.d.p. di 0 volt, e tale d.d.p. diminuisce di circa 20 mV per ogni aumento di unità pH, e viceversa.
Sono invece utili alcune considerazioni sulla scelta e la manutenzione della sonda pH: anzitutto qui ci riferiamo esclusivamente alle normali sonde combinate, in cui i due elettrodi si trovano congiunti. La sonda pH è piena di un elettrolita, in contatto con l’esterno: di conseguenza la permanenza continua in acqua porta inevitabilmente alla contaminazione e alla diluizione dell’elettrolita ed al malfunzionamento della sonda. A tal riguardo le sonde possono dividersi in due categorie, quelle con elettrolita liquido, che si contamina più rapidamente, ma può essere sostituito, e quelle con elettrolita in gel, che hanno una resistenza molto maggiore alla contaminazione, ma quando questa infine avviene vanno buttate. Un’ulteriore difesa dalla contaminazione è data dalla presenza di una giunzione doppia o tripla anziché singola, e dal materiale della giunzione progettato per l’uso continuo; la contaminazione si manifesta in genere con la difficoltà o impossibilità di tarare il pHmetro (per particolari ulteriori vedi i link citati).
La parte sensibile della sonda non deve mai seccarsi: nel caso il pHmetro continuo non venga utilizzato, bisogna chiudere la sonda con l’apposito cappuccio, riempito di soluzione di conservazione. Se non si dispone di tale soluzione si può usare una soluzione “casereccia” 3.5 molare di KCl (cloruro di potassio) o anche le soluzioni di taratura a pH 7 o pH 4. In nessun caso lasciare immersa la sonda in acqua distillata o da osmosi inversa, perché è il metodo che provoca il più rapido invecchiamento della sonda.
Durante l’uso la sonda deve essere immersa per qualche centimetro, in modo che restino sott’acqua sia il bulbo di vetro, sia il setto poroso laterale (un piccolo tondino che attraversa la parete della sonda). È meglio sistemare la sonda in un luogo con una lieve corrente d’acqua, possibilmente lontano da apparecchiature elettriche, per evitare interferenze.
Di quando in quando si può pulire la sonda, specie se si notano incrostazioni di alghe, con semplice acqua calda e un panno soffice.
Nella scelta fra sonde ricaricabili e non, si deve tener conto che l’elettrolita di riempimento è abbastanza caro, si badi che l’elettrolita per le sonde a doppia giunzione (3.5 M KCl) è diverso da quello per le sonde a giunzione singola (3.5 M KCl + AgCl).
-Il pHmetro-controller
Dato il funzionamento delle sonde, a prima vista per misurare il pH basterebbe un qualsiasi voltmetro, tuttavia la sonda ha alcune parti in vetro speciale caratterizzate da un’alta impedenza, per cui presenta un’impedenza sui 200 MW ; di conseguenza occorre un voltmetro con un’elevatissima impedenza d’ingresso: in pratica un apparecchio dedicato.
I pHmetri, come tutti gli strumenti scientifici, si caratterizzano per una serie di parametri strumentali e costruttivi, fra cui elenchiamo i più importanti e i relativi consigli per l’uso in acquariofilia.
SCALA: indica i valori limite che può assumere la misura; praticamente tutti i pHmetri commerciali hanno una scala da pH 0 a pH 14; per l’uso acquaristico può bastare anche una scala più ristretta, circa da pH 4 a pH 10 (quanto basta per poter usare i tamponi di taratura standard a pH 4.01 e pH 10.01).
RISOLUZIONE: indica la minima variazione della grandezza misurata che può essere apprezzata dallo strumento; in pratica, per gli strumenti a lettura numerica, si tratta della variazione ammessa sull’ultima cifra presente sul display: per esempio, un pHmetro che fornisce letture del genere pH 6.54…6.55, avrà una risoluzione di 0.01 pH. La risoluzione 0.01 pH è sovrabbondante per l’uso in acquario, basta senz’altro una risoluzione di 0.05 pH (letture 6.40…6.45…6.50).
PRECISIONE: indica la capacità dello strumento di fornire lo stesso valore ripetendo la misura. Per esempio, una precisione di 0.2 pH indica che lo strumento, misurando più volte un pH costante, può fornire misure che si discostano dal valore medio di ± 0.2 pH. Nel caso di singole letture la precisione determina anche l’errore strumentale (cioè se leggo pH 7.64 con un pHmetro che denuncia precisione ± 0.1 pH, la misura è 7.6± 0.1 pH, dove la scrittura indica che il valore “vero” può essere uno qualsiasi fra i valori compresi fra pH 7.5 e 7.7). Da quanto si è detto si capisce che, almeno per singole misure, quali quelle che a noi interessano, una sensibilità migliore della precisione è sostanzialmente inutile. Per i nostri scopi può bastare una precisione di 0.05 pH.
GIUSTEZZA: indica la capacità dello strumento di indicare il “valore vero” della misura. Per uno strumento tarato, come il pHmetro, la giustezza dipende essenzialmente dalla bontà della taratura (oltreché dalle caratteristiche costruttive), e dunque non è dichiarata dal costruttore.
COSTRUZIONE ANALOGICA O DIGITALE: gli strumenti analogici elaborano il segnale in modo continuo, con componenti come gli amplificatori che forniscono un output proporzionale all’input. Gli strumenti digitali convertono il segnale in un numero e lo elaborano sotto forma numerica. Notare che la visualizzazione è quasi sempre digitale (display) e non analogica (per esempio quadranti a lancetta) anche nel caso di strumenti analogici: in tal caso la conversione analogico-digitale avviene solo alla fine. In acquario possono andar bene ambedue i tipi di strumento, quelli digitali offrono in genere più stabilità della taratura e una serie di facilitazioni pratiche, come la taratura automatica, l’autocontrollo degli errori e memorie di vario genere.
LA COMPENSAZIONE IN TEMPERATURA: molti pHmetri compensano automaticamente le variazioni di risposta della sonda in funzione della temperatura. Dato che in acquario abbiamo ambienti a temperatura costante, tale compensazione è inutile.
L’IMPEDENZA D’INGRESSO: Come già detto è importante che sia molto elevata, dell’ordine di 1012 Ohm.
LA CALIBRAZIONE: gli strumenti con calibrazione a due punti (con due diverse soluzioni di calibrazione) sono molto migliori di quelli con calibrazione ad un punto.
L’USCITA CONTROLLATA Dato lo scopo cui è destinato è fondamentale che il pHmetro abbia un’uscita con cui comandare l’elettrovalvola. Si può trattare di un relais o di un dispositivo allo stato solido, purché sopporti un carico non ridottissimo, e di tipo anche induttivo, quale è un’elettrovalvola.
PUNTO DI SET E ISTERESI Il punto di set deve essere regolabile per evidenti motivi, l’isteresi può anche essere fissa, purché su un valore di circa 0.1 pH: valori molto superiori rendono inutile il controller; dispositivi molto sofisticati hanno una logica più complessa, per cui il punto di set viene raggiunto con periodi di accensione e spegnimento di durata variabile e predeterminata o con meccanismi di comando proporzionale.
-La taratura
È fondamentale una corretta e periodica taratura del pHmetro. Non si può consigliare qui un intervallo preciso, che comunque è senz’altro superiore al mese: l’intervallo giusto può essere determinato caso per caso verificando alla successiva taratura che la lettura non sia errata di più di 0.1-0.2 pH.
La taratura si effettua usando apposite soluzioni a pH noto, dette “soluzioni tampone”. Per le misurazioni di interesse in un acquario dolce è meglio usare, se possibile, i tamponi a pH 4 e pH 7.
Le procedure esatte dipendono dal pHmetro usato, comunque in genere si immerge la sonda (fino a oltre il setto poroso laterale!) nella soluzione a pH 7 e si regola lo “zero”, poi si usa la soluzione a pH 4 e si regola la “pendenza” (o “slope”). È utile sciacquare la sonda con acqua d’osmosi ed asciugarla prima di passarla da un tampone all’altro.
Non bisogna mai immergere la sonda direttamente nella bottiglia del tampone, bisogna invece versarne una quantità sufficiente in un recipiente piccolo e pulito. Dopo l’uso la soluzione tampone usata si getta.
Prima di agire sui comandi di taratura aspettare che la lettura si sia stabilizzata.
Per sicurezza si può ripetere la taratura due o tre volte di seguito, soprattutto sugli apparecchi analogici, fino a che si leggono entrambi i valori corretti senza dover modificare la taratura.
Infine se lo strumento non è compensato in temperatura bisogna portare le soluzioni di taratura alla stessa temperatura dell’acquario (per esempio tenendole un po’ a “bagnomaria”) e tarare la lettura non sul valore nominale della soluzione (pH 4.01 o 7.01) ma sul suo pH reale alla temperatura dell’acquario (il pH alle varie temperature è riportato sull’etichetta).
Gli erogatori di CO2e gli accessori
L’erogatore di CO2 è l’accessorio che, immerso nell’acquario, provoca lo scioglimento in acqua del CO2. Sull’efficacia dell’erogatore influiscono vari parametri elencati in tabella 2, eventualmente modificabili per modulare la quantità di CO2 disciolto.
FATTORE | EFFETTO | |
Tutti gli | Profondità dell’erogatore | |
Movimento dell’acqua nei pressi dell’erogatore | ||
Dimensione delle bolle di CO2 | ||
Solo diffusori | Lunghezza del percorso delle bolle nel diffusore | |
Velocità dell’acqua nel diffusore | ||
Dimensione del diffusore | ||
Rinnovo del gas nel diffusore | ||
Solo | Tempo di permanenza delle bollicine in acqua |
Tabella 2: Influenza dei vari fattori sull’efficacia di erogazione.
I diffusori descritti hanno prestazioni paragonabili ai modelli commerciali, mentre non è possibile costruirsi un atomizzatore simile ai tipi in vendita.
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I diffusori
Chiamo diffusori tutti quegli erogatori che sciolgono il CO2 in camere interne in cui grosse bolle di gas sono in contatto con l’acqua. La loro efficienza iniziale è elevata, perché il CO2 può essere ceduto in modo pressoché integrale, tuttavia un difetto di cui soffrono più o meno tutti ne riduce i vantaggi rispetto agli atomizzatori: le grosse bolle di gas al loro interno tendono a contaminarsi con i gas di scambio, ceduti dall’acqua. Bisogna dunque prevedere un meccanismo di rinnovo del gas al loro interno, che inevitabilmente porta a sprecare un po’ di CO2.
Molti diffusori prevedono l’immissione di acqua con una pompa per aumentare la superficie effettiva di contatto: si può comprare una piccola pompa regolabile dedicata a questo scopo, oppure applicare una derivazione alla pompa del filtro, se questa è sufficiente; in tal caso occorre evidentemente montare un rubinetto sul tubo che alimenta l’erogatore, perché la portata non deve essere eccessiva (si può anche usare un tubo di ridotta sezione, ma il rubinetto permette di controllare con facilità il flusso di acqua).
-La campana
È un sistema un po’ antiquato, ma efficiente. In pratica è un bicchiere rovesciato nel quale si raccoglie il CO2. Il difetto principale è che la contaminazione del CO2 non può essere evitata, e una volta che la campana si è riempita di gas l’efficacia diminuisce rapidamente. Bisogna dunque prevedere un metodo di svuotamento manuale, da effettuarsi molto spesso: si può semplicemente rovesciare la campana, o prevedere un rubinetto, come nel modello illustrato in figura 1. Si può anche praticare un piccolissimo foro sul fondo della campana, in modo che il gas possa sfuggire solo quando ha raggiunto una certa pressione; ovviamente questo tipo di svuotamento semiautomatico è difficile da mettere a punto, soprattutto quando intervengono incrostazioni e alghe. Un sistema alternativo di svuotamento automatico è il sifone: si pratica un foro sul lato della campana, a circa un centimetro dal bordo, e vi si incolla un tubetto rigido sagomato ad “U”, in modo che peschi vicino al “cielo” della campana: appena il CO2 raggiunge il livello del foro il sifone si adesca e svuota la campana.
Per costruire la campana si può usare un recipiente di plastica trasparente per alimenti. Sul fondo si praticano due fori, in cui si cementano con colla epossidica due spezzoni di tubicino rigido come in figura: su quello lungo va innestato il tubetto del CO2, mentre su quello breve si innesta un tubetto flessibile che termina con un rubinetto, da usarsi per lo svuotamento. Si può anche applicare una ventosa per fissare la campana all’interno dell’acquario. Fino a quando la campana è parzialmente vuota il tubetto lungo funziona anche da contabolle.
-La campana multipla
È l’evoluzione del tipo precedente: all’interno di un contenitore alcune paratie creano delle sacche in cui il CO2 si accumula; nel modello illustrato in figura 2 è previsto l’ingresso di acqua da una pompa ausiliaria, che aumenta l’efficienza e riduce il ristagno. Il flusso d’acqua porta via con sé una parte del gas, rinnovandolo e riducendo la contaminazione, in modo che lo svuotamento (tramite rovesciamento) si rende necessario solo a grandi intervalli. Per realizzare un diffusore come quello illustrato si può usare vetro sottile (2-3 mm), da tagliare da sé o ordinare ad un vetraio. Gli incollaggi sono fatti con silicone. In alternativa si può usare del materiale plastico trasparente, più facile da lavorare: molte materie plastiche si tagliano incidendole con un taglierino e spezzandole. In questo caso si può usare una colla apposita invece del silicone. Il diffusore deve essere alto almeno una quindicina di centimetri, e largo in proporzione.
-Lo scivolo (flipper)
Gli scivoli sono inclinati nel verso opposto e l’apparecchio è proporzionalmente più largo: le bollicine debbono compiere un lungo percorso a zigzag prima di uscire, e non vengono catturate. L’efficienza è inferiore, ma la manutenzione è nulla. Anche qui si può usare una pompa per creare una controcorrente, in grado di migliorarne le prestazioni. Per aumentare l’efficienza si può utilizzare il gas in uscita per riempire dal basso una campana soprastante.
-Il reattore
Si tratta di un recipiente, anche in questo caso in vetro sottile o materiale plastico, pieno di un materiale atto ad aumentare la superficie di scambio: cubetti o palline da filtro biologico, come illustrato in figura 4, o anche cannolicchi di ceramica, argilla espansa, pezzetti di lava, pomice, eccetera. La pompa dell’acqua è necessaria, infatti questo tipo di diffusore funziona in pratica creando una “cascata sommersa” in ambiente carico di CO2: l’acqua, immessa dall’alto, scroscia nei vari anfratti creati dal materiale di riempimento, pieni di sacche di gas e si arricchisce così di CO2.
Anche in questo caso si può avere contaminazione del gas, comunque il processo è molto lento: si può prevedere un rubinetto di svuotamento sulla lastra di chiusura superiore, o anche aumentare di quando in quando l’afflusso di CO2, in modo da far “traboccare” i gas dall’apertura inferiore. In ogni caso una regolazione e un dimensionamento tali da permettere la periodica fuga dal basso di qualche bollicina aiuta a ridurre la necessità di manutenzione. Facendo sfociare il tubo d’immissione del CO2 ad una certa distanza dall’inizio del materiale di riempimento si ottiene un pratico contabolle incorporato. Se il materiale di riempimento non si incastra bene nel reattore conviene tenerlo in posizione con due grate di plastica, una sopra e una sotto il materiale stesso. Anche se si usa un materiale leggero è il caso di usare la grata inferiore, perché il materiale potrebbe non galleggiare nell’ambiente misto di acqua e gas.
Gli atomizzatori
Gli atomizzatori sono quegli erogatori che sciolgono il CO2 inviando in acqua una quantità di piccole bollicine di gas. Ciascuna bollicina stabilisce un equilibrio con l’acqua circostante, cedendo CO2 ed acquistando altri gas (ossigeno, vapor acqueo). Dunque anche se le bollicine non vengono assorbite (non “scompaiono”) si può avere comunque un’alta efficienza. Come già detto è impossibile costruirsi atomizzatori equivalenti a quelli commerciali, costituiti in genere da un’ampolla tappata con un materiale sinterizzato: se si vuole avere un atomizzatore di questo tipo (che ha il vantaggio di essere estremamente compatto) è necessario acquistarlo.
-La pietra porosa
È il modo più economico ed elementare di diffondere CO2. L’efficienza estremamente scarsa provoca grandi sprechi di CO2: conviene usarla solo per prova o in acquari molto piccoli, dove una scarsa efficienza può essere benvenuta. Un modo per aumentarne un po’ l’efficacia è sistemare la porosa alla base di un tubo rigido poco più grande di lei, lungo una ventina di centimetri, da applicare, inclinato, ad una parete della vasca; così modificata la porosa diviene in pratica un elementare diffusore.
-La porosa di tiglio
Il tiglio è un legno con finissime porosità: una pietra porosa di tiglio è più efficiente di una porosa normale perché produce bollicine molto minute. Si può anche usare un tondino di tale legno, di diametro tale da incastrarsi nel tubetto del CO2. Si compra nei negozi di modellismo o si può anche riutilizzare l’impugnatura dei piccoli pennelli economici da acquerello (che per l’appunto sono di tiglio) opportunamente lavorata con un tagliabalsa.
Tutti questi sistemi hanno come difetto che il tiglio si ostruisce facilmente.
-La porosa di perlon
Un metodo paragonabile alla porosa di tiglio, che si segnala per il “faidaté estremo” è quello che prevede di incastrare direttamente nell’estremità del tubo del CO2, o meglio in un uno spezzone di tubetto rigido a questo applicato, un rotolino lungo circa 1 cm di fibra di perlon fortemente compressa. L’aggeggio dovrebbe produrre bolle estremamente fini.
-La centrifugazione
È un metodo un po’ casereccio e scomodo, ma rapido ed efficace: si incastra o si fissa in qualche modo il tubicino del CO2 nell’entrata della pompa del filtro. Le bolle, aspirate dalla pompa, vengono frantumate e sparse per tutto l’acquario. L’efficacia aumenta se la pompa del filtro ha, in uscita, un tubo sufficientemente lungo (almeno 20 centimetri) che sfocia vicino al fondo o almeno a metà altezza dell’acquario. Con questo sistema la pompa diviene abbastanza rumorosa.
-Il Venturi
Alcune pompe filtro sono dotate, sul tubo di uscita, di un tubo di Venturi, inserito allo scopo di aspirare aria. Si può collegare il tubo del CO2 alla presa d’aria, in modo da provocare il risucchio e lo spargimento del gas. Si può anche comperare o autocostruire un tubo di Venturi, ma non sono a conoscenza della sua efficacia. Chi lo avesse provato può comunicarmi le sue esperienze.
-L’insufflatore
Non so bene come chiamare questo metodo: bisogna utilizzare una pompa dedicata o la pompa del filtro. Si costruisce una tubazione per l’acqua in modo da avere un tratto di tubo lungo almeno 20 cm rasente il fondo dell’acquario. All’inizio di questo tratto si pratica un foro, in cui si sigilla con della colla epossidica un tubicino uguale a quello usato per il CO2, di un paio di centimetri di lunghezza, in modo che sia quasi completamente sporgente all’esterno. Si lavora un tondino di tiglio lungo un centimetro o poco più fino a quando si incastri da entrambe le parti nel tubicino, e si applica a tale tondino il tubetto del CO2. Dopodiché si incastra il tutto nel tubicino cementato sul tubo dell’acqua.
La valvola di non ritorno
In varie parti di questo articolo ho suggerito di montare una valvola di non ritorno prima dell’erogatore. Si tratta di un accessorio di bassissimo prezzo, che si compra nei negozi d’acquari, e impedisce all’acqua di penetrare nell’impianto di CO2 quando, per un motivo o per l’altro, l’erogazione è sospesa. Ribadisco qui che il costo è talmente basso e mette al riparo da tanti guai potenziali che sarebbe follia non utilizzarla, soprattutto nei casi in cui è più verosimile un riflusso di acqua, e cioè in impianti con elettrovalvola, in impianti che fanno uso di diffusori con acqua in controcorrente e in impianti a zucchero e lievito.
Il contabolle
Il contabolle è un accessorio non indispensabile, ma può essere d’ausilio nel regolare la quantità di CO2 e nel verificare visivamente la costanza dell’erogazione; in particolare durante le regolazioni dà un’immagine immediata della variazione del flusso, senza dover attendere che vari la concentrazione di CO2 in acquario, in modo che la si possa misurare tramite il pH.
In pratica si tratta di un recipiente parzialmente pieno d’acqua, dotato di due tubi o fori: uno sotto il livello dell’acqua, uno sopra. Il CO2 viene immesso dall’apertura inferiore, sale nell’acqua sotto forma di bolle e viene prelevato dall’apertura superiore, in modo che dal conteggio di bolle in un’unità di tempo si può dedurre la quantità di CO2 erogata.
Molti erogatori commerciali di CO2 sono dotati di un contabolle incorporato, e si può prevedere un contabolle anche negli erogatori faidaté, sotto forma di un piccolo recipiente incorporato per gli atomizzatori o semplicemente prevedendo un percorso libero per il CO2 sopra il punto d’immissione per i diffusori, in modo da poter vedere almeno per un tratto il percorso delle bolle. Tuttavia si può anche costruire un contabolle separato, tipo quello illustrato in figura 5: occorrono un vasetto di vetro con tappo a tenuta stagna, due tubicini rigidi, possibilmente di plastica (ad esempio i tubetti rigidi per l’aerazione), e il silicone (o colla epossidica) necessario a incollare i tubicini al tappo. Le uniche lavorazioni necessarie sono la foratura del tappo e l’incollaggio dei due tubicini. Conviene controllare la tenuta delle varie giunzioni bagnandole con un po’ d’acqua saponata mentre il contabolle è in funzione. Per migliorare la tenuta del tappo si può usare un po’ di nastro di teflon sulla filettatura e sul bordo del vasetto.
Si può anche trasformare in contabolle l’ampolla contagocce compresa nel tubo da fleboclisi, usata sottosopra; conviene in tal caso controllare che l’oggetto e le sue giunzioni resistano alla pressione, rinforzando eventualmente con colla o nastro adesivo.
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Il tubo di collegamento
Per trasportare il CO2 all’erogatore serve un tubetto di appropriato diametro: si può in prima battuta utilizzare senz’altro il normale tubetto per l’areazione o, in alternativa, l’economicissimo tubicino nero usato negli impianti d’irrigazione goccia a goccia.
Tutte le Case acqaristiche sostengono che il tubetto per l’areazione è troppo poroso e molto CO2 va disperso, e perciò vendono appositi tubetti di materiali a loro dire più impermeabili al CO2. Dato il prezzo di vendita veramente esagerato è molto probabile che sia una trovata esclusivamente pubblicitaria, perciò consiglio di lasciar perdere e usare il normale tubetto d’areazione. Il CO2 disperso sarà sicuramente meno costoso del tubetto. Può essere conveniente usare un tubo più resistente (come per esempio il tubetto per l’irrigazione) nel caso si adoperi un atomizzatore, che come accennato più volte funziona a pressione relativamente alta.